Saprete tutti del gesto eclatante di mons. Franco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento nonché ex Vescovo ausiliare della nostra Diocesi,

 

di non celebrare i funerali delle due bambine rimaste vittima del crollo di un'abitazione a Favara (AG) nei giorni scorsi. E' di oggi la lettera aperta di p. Felice Scalia a mons. Montenegro, che lasciamo alla vostra libera lettura, perché sia spunto di riflessione serio sulla Chiesa di oggi:

“Eccellenza e Padre,
al dolore che ha colpito la famiglia di Favara credo che si sia unito ogni uomo di buona volontà che conserva ancora in sé un briciolo di umana compassione per la sorte delle vittime di qualsiasi disastro. Vorrei unirmi al Suo dolore di “Padre” a cui è stata affidata una diocesi tormentata dalle contraddizioni e solcata da molti generi di povertà. Credo di indovinare anche il Suo sconcerto, la Sua intima ribellione di credente e di uomo perché cose così non dovrebbero mai succedere nella nostra “civile” Italia. E se tutti siamo nauseati di questo degrado nella gestione della cosa pubblica, quando poi se ne vedono i frutti nella carne lacerata di due innocenti, di due bambine, i sentimenti si accavallano e, almeno in me, diventano rabbia, urlo, perfino – in certi momenti – disperazione. Ciò che attanaglia è l’impotenza. Non abbiamo interlocutori. Non sappiamo a chi dire certe cose, con chi protestare a chi chiedere come mai le case possano essere costruite e mai assegnate, come mai chi abita in un tugurio non entri neppure in graduatoria per le case popolari, come faccia il suo lavoro certa gente preposta ai servizi sociali, dove fossero e che facessero il Sindaco e tutti gli assessori implicati nella faccenda. Ci penserà la Magistratura a fare luce? Saprà, vorrà, potrà pensarci ad Agrigento questa Magistratura delegittimata ogni giorno da Roma?
Oggi però, fra tanto dolore e confusione, almeno per me, il Suo gesto di non volere celebrare i funerali delle due bambine e di volere stare in mezzo alla gente in lutto ed in pianto come Padre-vescovo, questo per me è una briciola, una mollichina di speranza. Non so in alto loco, oltre le formali partecipazioni, come è stata giudicata la Sua decisione. Non ci vuole molto ad immaginare che la gente bene si lamenti anche qui. Lei rompe un rito – si dirà – una consuetudine, si erge a giudice di altri vescovi che trovano ovvio e doveroso agire diversamente. Lei frantuma uno dei capisaldi del nostro mestiere di cristiani e uomini tranquilli. Nella vita tutto va bene se c’è chi uccide, chi muore, e chi raccomanda al Padreterno i morti. I disastri ci sono, e tutto è nella norma se dopo qualche giorno c’è un bel funerale cittadino (meglio se di Stato!) con fasce tricolori e bandiere del Comune. Poi la vita deve andare avanti e tutto scorre se i responsabili delle morti restano al loro posto e fanno i loro affari. Perché ci deve essere pure chi poi continua a costruire la sua fortuna sulla morte degli altri, e la fa franca all’Aquila, a Giampilieri, a Favara, ad Haiti… Così va il mondo. Si lasciano i morti a seppellire i loro morti – come dice il vangelo – si uccidono i poveri, muti profeti che gridano il cinismo del sistema, e poi si costruiscono per loro, anche solo tra una nuvola di incenso, dei bei monumenti. Anche questo lo denunziava Gesù. Tutti lì a piangere, a condividere i momenti solenni di catarsi, ed il Celebrante-vescovo trasformato in una autorità, assieme alle altre autorità, che compie il suo dovere. Lei, Monsignore e Padre, ha rotto questa tacita collusione, questa specie di copertura, nel nome del sacro, ad un sistema infame. Sarà sempre vicino alle vittime (ed oggi è lì a piangere con quella madre, con quel padre, con quel ragazzo ancora atterrito) ma non sarà mai vicino a quei poteri civili che pretendono di piangere le vittime da loro stessi provocate. Non sarà più testimone e celebrante di “assassini annunziati” – come direbbe Marquez.
Le confesso che un giorno lontano, durante la Sua ordinazione episcopale, ebbi per un po’ il timore che l’autorità e l’amministrazione potesse toglierlo alla compassione, alla tenerezza, alla fraterna vicinanza con la gente. Sono ben lieto di constatare che si mostra vescovo per il popolo, non sul popolo di Dio.
C’è anche chi dice che il Suo gesto per essere un segnale davvero significativo di una svolta nei rapporti tra chiesa e stato, per essere cioè l’inizio di un cammino evangelico in cui non si vuole sacralizzare più ogni scelta del governo (“Non abbiamo niente da dire alle leggi dello stato” – si affermò da parte molto autorevole l’indomani del ‘pacchetto sicurezza” dello scorso luglio) magari in contraccambio di favori e privilegi, per questa svolta storica avremmo bisogno di una solidarietà di tutto l’episcopato italiano. Sarà. Ma se aspettiamo che tutto piova dall’alto e che i cambiamenti siano sempre quelli concordati dalla diplomazia, aspetteremmo invano una vera conversione della chiesa ”alle gioie e alle speranze” dell’uomo contemporaneo.
Grazie, Eccellenza, del Suo gesto. Voglia dimenticare tutto quello che ho scritto. Rimanga solo la testimonianza del mio affetto e della mia stima. Felice Scalia S.J.”

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